MONASTERO DELLE MONACHE

Serve di S. Maria di Arco

Via Mantova 11 - 38062 ARCO (TN) 

email: info@monasteroarco.eu

Riflessioni:

preghiere per una breve riflessione nei giorni dell’anno

Pasqua 2023


Carissimi amici e amiche,

nella Chiesa, per grazia dello Spirito, noi siamo contemporanei di Gesù.

La sua passione, la sua morte, la sua sepoltura, la sua discesa vittoriosa agli inferi si svolgono alla nostra presenza, si svolgono in noi.

E la tomba scavata nella roccia è questo mondo, su cui la morte ha posto il suo sigillo.

In questo cammino di speranza - che conduce alla notte di Pasqua, più luminosa della luce -

ognuno di noi possa sentirsi solidale con l’umanità intera e con ciascuno e, al tempo stesso, consolato e rafforzato nella speranza.

Natale 2021

Signore, vieni!

ti preghiamo,

vieni!

Tutti aspettiamo e tu,

più di tutti

bloccato ai confini

che ci affanniamo a difendere,

ai lunghi reticolati di filo spinato

che non ti permettono di passare

e venire ad abitare nelle nostre case

sempre più vuote…

Ma tu continui a nascere ovunque

profugo, segregato, emarginato,

sempre in attesa di essere accolto tra i figli dell’uomo.


Le luci che abbagliano nelle nostre strade

sono tante

ci incantano e ci confondono

Non ci fanno vedere la luce della Stella

che brilla là dove non c’è ancora posto

per l’umanità.

Natale 2020

Gli eventi tristi e drammatici che segnano oggi l’intera umanità, ci inducono a celebrare quest’anno il Natale, riflettendo più a fondo sul significato della povertà: quella materiale, sempre più estesa e ingiusta, ma anche quella morale riguardante la dignità, l’incertezza, la solitudine, il lutto, la disperazione… l’assenza di futuro.

La celebrazione liturgica del Natale, ponendo al centro il mistero dell’Incarnazione, celebra di fatto la povertà, la condizione umana vissuta interamente in tutte le sue espressioni ed esperienze dal Signore nostro Gesù Cristo. “Egli da ricco che era, si è fatto povero per noi, perché diventassimo ricchi per mezzo della sua povertà” (cfr 2 Cor 8, 9).

Le trasformazioni epocali hanno modificato anche il modo di pensare la liberazione o salvezza dal male. Oggi infatti non ci chiediamo più (o almeno non è questa la domanda più frequente) quali siano le ragioni ultime del male bensì come affrontarlo e superarlo (che è poi, proiettato in termini del regno e dell'assoluto, il processo sotteso al termine salvezza). Questo tema è fondamentale, perché saper reagire adeguatamente al male è uno dei compiti maturativi di ogni persona umana, credente o meno. Ma è anche uno "spazio" dove il cristiano può portare un suo contributo specifico.

La riflessione sul rapporto tra Incarnazione e povertà che viene offerta dalla liturgia ci presenta due dati:

* l'azione di Dio, nell'orizzonte cristiano, non perviene in modo efficace all'umanità se non trova spazi umani che ne traducano l'inesprimibile forza in parole, gesti, linguaggi che siano appunto umanamente comprensibili. Da qui deriva anche la serena consapevolezza dell'immensa ed ineliminabile distanza tra l'energia divina e la nostra possibilità di accoglierla e di tradurla in linguaggi umani, ciò che evita tentazioni di onnipotenza e ferite narcisistiche.

* La redenzione che Cristo ha operato, non ha eliminato il male dal mondo, bensì ha tracciato un modello per riuscire a vivere in modo salvifico – cioè generatore di vita - anche le situazioni negative. L'esperienza cristiana è profondamente consapevole che la povertà della persona umana non ha in se stessa la forza di portare il male, ma si fida senza riserve che la salvezza è già stata operata e attende di penetrare i tessuti della storia quando trova ambiti di accoglienza nel tempo. L'esempio di Gesù ci porta a comprendere che la salvezza si opera quando persone e comunità si aprono senza riserve all'azione di Dio e così riescono ad inserire energie di vita là dove invece circolano le forze di morte o predominano processi distruttivi.

Il nostro sforzo personale e comunitario si concretizza in cammini di disponibilità perché l'amore di Dio possa irrompere nelle dinamiche del disordine primordiale, come pure nelle sacche di male determinate ed amplificate dal peccato delle persone umane. La coscienza cristiana è convinta che il male non verrà sconfitto da strutture giuridiche o regole morali, ma solo da persone e comunità che amplifichino gli spazi in cui solidarietà e misericordia creeranno le condizioni perché nuove ed inedite forme di umanità possano emergere e crescere.

In questa prospettiva sappiamo dunque che la crescita autentica dell'uomo e la progressiva vittoria sul male hanno dimensioni solidali con la storia: non possono essere limitate alla dimensione personale (che però è la condizione di base per l'accoglienza dei doni salvifici), né a quelle comunitarie. Sono necessarie anche istituzioni, organizzazioni, strutture complesse che diventino ambiti sempre più idonei ad accogliere doni di vita e di salvezza.

Rischiare la propria vita mettendosi nelle organizzazioni o anche fare azione politica, portando appunto quel supplemento di agàpe (= amore gratuito) e di consapevolezza della legge dell'Incarnazione e dell'importante ruolo che la povertà creaturale ha avuto nella vicenda storica di Gesù di Nazareth è lo specifico apporto del cristiano per realizzare comunità umane in grado di costruire percorsi in cui l'avventura umana diviene capace di portare il male, di saperlo rendere comunque occasione di crescita di umanità autentica, fino a vincere il male e... perfino la morte!

Pasqua 2020

La Croce splende nel cuore della vita


dalla nascita

agli eventi che fanno la storia

alla morte

al compimento glorioso del destino umano




Le quattro scene ai lati della croce, rappresentano l’intero percorso della vita umana di Gesù, che corrisponde a quello di ogni essere umano che viene al mondo.

  • 1. In basso, è la scena del Natale di Cristo, ove ritroviamo i simboli tradizionali: la grotta; la stella; Maria, distesa su un giaciglio rosso (simbolo di vita e di regalità); il Bimbo nella mangiatoia; il bue e l’asino; Giuseppe pensoso in disparte.
  • 2. alla destra del Crocifisso è la scena dell’Annunciazione. Siamo nella pienezza dei tempi: l’umanità in Maria è pronta a ricevere e a rispondere alla Parola di Dio che in lei si fa carne.
  • 3. all’altro lato, è rappresentata, in parallelo alla vocazione di Maria, la chiamata dei discepoli. E’ il momento dell’incontro con Colui che è il senso della loro vita, che li renderà a loro volta “pescatori di uomini”, salvatori dell’umanità sempre minacciata di perdersi nel disordine e fluidità dei falsi valori.
  • 4. alla sommità della croce è raffigurata la Risurrezione di Cristo e dell’umanità con Lui. Al centro dell’ovale (scuro all’interno come il mistero di Dio, che va schiarendosi verso il bordo esterno) si vede la figura di Cristo che afferra per mano i progenitori dell’umanità, Adamo ed Eva, per estrarli dalle tenebre del sepolcro.


Al centro contempliamo il Crocifisso. Le mani, i piedi e il costato mostrano in maniera stilizzata ma evidente i segni delle trafitture da cui scaturisce il sangue che è vita per noi, con l’acqua del costato da cui rinasce nuova tutta la creazione. Non si vedono altre ferite nel corpo che appare composto e armonioso, come se la passione e la morte non l’avessero intaccato e deformato. Solo il volto e gli occhi tradiscono l’intima sofferenza del Salvatore. Gli occhi sono aperti, come se non fosse morto: guardano dritto verso lo spettatore, come a chiedere consolazione e aiuto. E’ un appello a riconoscervi lo sguardo di ogni creatura sofferente che incontriamo nella nostra esistenza terrena.

La posizione arcuata del corpo è l’altro elemento che indica lo stato di sofferenza e di abbandono.

Le braccia invece, ampiamente distese, richiamano l’atteggiamento solenne della preghiera sacerdotale: “Cristo - dice l’Apostolo Paolo - è sempre pronto a intercedere per noi presso il Padre”.

“Dal legno della Croce è venuta la gioia in tutto il mondo”

 canta la liturgia del Venerdì Santo.

Ancora pochi lo sanno.

Soffrono e piangono senza speranza.

Scuotici, Signore, dal nostro torpore,

dal nostro piangerci addosso.

Come a Maria di Magdala

in quell’alba stupenda,

fa’ sentire la tua voce

che ci chiama per nome,

anche se paurosi, dubbiosi, infedeli.

Dietro a lei correremo anche noi

ad annunciare che la Vita

sta fiorendo di nuovo

e Tu sei con noi, sempre.

Pasqua 2019

Guerra, politica e contemplazione:

inquietudini nella vita monastica e ... oltre


(da una lettera agli amici, di qualche anno fa, per riflettere ancora insieme su un

... mercato, profitto, indici di borsa sono nomi di divinità e di santuari dei nostri giorni, con un'organizzatissima casta sacerdotale così efficiente da aver reso inefficaci e quando non addirittura asserviti agli interessi dei pochi più ricchi, quegli organismi internazionali come l'ONU, il Fondo monetario internazionale, la Banca mondiale o l'Organizzazione mondiale del Commercio, che avrebbero potuto indirizzare diversamente i processi di sviluppo tecnologico e di globalizzazione. Il conto è stato pagato dai poveri, sia nell'ambito della giustizia sociale che del diritto alla pace. La tentazione è spesso quella di arrendersi al sentimento d'impotenza e allo scoraggiamento, trincerandosi in ambiti limitati o addirittura privatistici.

A furia di delegare, mediare e talvolta, purtroppo, persino colludere - anche i cristiani paiono spesso incapaci di riconoscere, nella prassi, la negatività degli idoli dominanti. Sembra prevalere, infatti, l'attitudine a ritirarci in recinti di pura spiritualità fuori della terra, oppure la preoccupazione di... non sporcarci le mani, direttamente, almeno, visto che poi il "lavoro sporco" lo facciamo fare magari ai diversi governi, cercando di indirizzarne le leggi a vantaggio dei nostri interessi corporativo-chiesastici.

Ma il futuro dell'avventura umana, che oggi si mostra così pericolosamente in balia di potenti forze disgregatrici, esige con forza una spiritualità che sia all'altezza del progetto creatore di Dio: di questa ci sentiamo chiamati ad essere testimoni. Una spiritualità della kenosis che, anche rinunciando ad aspetti della nostra tradizione particolare, possa attivare dinamiche di coinvolgimento comune fra credenti e non credenti su ideali condivisibili: una spiritualità del dono e della gratuità, una misericordia che reclami una giustizia sociale rigorosa e una volontà inflessibile di pacificazione.

Tradurre questi ideali in pratiche sociali richiede un impegno politico che, nella situazione attuale, riveste caratteri al tempo stesso di ascetica e di utopia: la misericordia e la gratuità

hanno le loro ragioni per cui lottare! Ma sappiamo anche che, né la misericordia, né la pace - e, in senso profondo, neppure la giustizia vera - possono essere imposte per legge. Per sua stessa natura, infatti, la legge è già il risultato di compromessi e di mediazioni "al ribasso". Le leggi sono efficaci solo se sostenute da atteggiamenti spirituali adeguati, che esse esprimono e rispettano. Perché le leggi non continuino ad essere, fin troppo sovente, degli alibi per i potentati economici, è necessario ed urgente che tutti noi, che ci vogliamo dire cristiani, osiamo vivere la speranza fino in fondo. Cioè, non solo come atteggiamento personale e a volte intimistico, ma anche come impegno concreto ad entrare consapevolmente e attivamente nelle dinamiche della vita sociale: sostenendo il progresso di una giustizia misericorde e, all'occorrenza, disponendoci anche ad arrischiare soluzioni inedite, proprio per fedeltà al battesimo con cui il Signore ci ha costituito "popolo di profeti". E' indispensabile, anzitutto, perseverare nella lotta: per una distribuzione meno ingiusta delle risorse e delle opportunità; per difendere la vita, non solo nei suoi momenti polari dell'inizio e della fine, ma in tutte le sue fasi e vicende; per ridare visibilità e ascolto agli ultimi "globalmente" ignorati, come p. es. quanti soffrono di malattie mentali gravi. Ma ormai non basta più neppure questo, occorre bensì andare oltre: p. es., battersi perché l'esercizio della libertà non sia più fondato sulla proprietà come necessità indiscutibile, o perché il concetto di appartenenza ad una nazione non sia interpretato come difesa esclusiva, e sovente gretta, di interessi angusti.

Insomma, il futuro ci chiede con molta forza d'impegnarci e lottare perché il mercato e la globalizzazione, da liturgie idolatriche del potere quali oggi sono, siano finalmente trasformati in spazi dove l'umanità possa crescere nelle sue dimensioni di giustizia e di misericordia.

Natale 2018

Per il credente celebrare il NATALE è celebrare liturgicamente la POVERTÀ UMANA


La celebrazione della povertà è forse uno dei temi più incisivamente presenti nella preghiera che la comunità ecclesiale percorre ogni anno nell'avvento e, ancor più, durante il tempo natalizio. Su questo tema abbiamo pensato di comunicarvi alcune riflessioni, provocate dalle immagini della situazione attuale di masse di migranti respinti.

Questa carne umana così ferita proietta come su di uno schermo gigante tutta l'estensione di quella "povertà della carne umana" nella quale si è incarnata la Parola.

Poiché celebrare liturgicamente vuoi dire appunto mettere al centro la vita tenendo come riferimento Gesù Cristo, la tradizione che è sorta da lui e le tradizioni che a Lui si richiamano, ponendosi nell'orizzonte della fede, cerchiamo insieme di rivisitare alcune tematiche sempre presenti ma forse non abbastanza lucidamente focalizzate come tema di preghiera celebrata insieme: il male e la povertà, due termini che hanno in comune l'esperienza di privazione, di insufficienza, di sofferenza - anche se non soltanto questo - e che gridano con forza perché qualcuno porti appunto "salvezza".

L'emozione che accompagna la celebrazione liturgica (ma innanzi tutto, forse, lo sguardo profondo dentro di noi) della povertà, come esperienza centrale della nostra ferialità non è un'esperienza attraente. Si potrebbe anzi dire che tutti cerchiamo di rimuoverla. Quando ci troviamo dinanzi ad uno specchio che non possiamo scostare, dove si riflette la nostra povertà più intima - come p. es. un conoscente o anche uno sconosciuto che chiede un qualche aiuto non banalmente economico (ascolto, tempo, incoraggiamento...) - quella carità che si fa concedendosi, raramente è accompagnata da uno sguardo capace d'incontrare lo sguardo di chi si presenta come un miserabile.

In fondo, la povertà di cui stiamo parlando fa "ribrezzo" ed essa stessa tende a nascondersi per vergogna, per pudore. Quando poi, com'è più frequente nel caso dell'indigenza economica, essa viene invece esibita in modo arrogante, provoca irritazione perché il comportamento espresso nega l'implicito bisogno e, ancor più, perché ci difendiamo con l'aggressività dalla sensazione di essere psicologicamente ricattati e quasi costretti a rispondere ad un sentimento più profondo che, in ultima analisi, riguarda il nostro rapporto con le "cose".

Fondamentalmente, nessuno si occupa gratuitamente della povertà: neppure forse noi della nostra. Anche per questo aspetto, come per molti altri, la società tecnologica ha previsto varie modalità di delega di ciò che potrebbe coinvolgere troppo la soggettività. Così p. es., non potendo sopprimere il sentimento della povertà, almeno come coscienza della nostra precarietà esistenziale, durante il natale il programma sociale prevede degli incontri tra i rappresentanti della povertà (i "poveri" per designazione e statuto sociale, i tossicodipendenti, gli orfani ecc.) e quelli dei vari poteri: economico, politico e altri ancora. E' l'incontro di due pseudo-identità che, per un giorno, daranno l'impressione di esistere e di guardarsi in faccia come si possono guardare due sconosciuti che passano l'uno accanto all'altro.

Sappiamo bene che la povertà non è solo mancanza di cibo, non è solo un incontro quotidiano con la malattia e con la morte, l’estrema povertà è il sentire di essere come esclusi dalla condizione umana: ma per un giorno assistiamo ad una momentanea e transitoria riammissione degli esclusi nell’anagrafe, come incidente della storia che viene esibito in televisione quando i conduttori debbono amplificare, e in qualche modo globalizzare, la portata dei gesti delle istituzioni di potere da cui dipendono.

Dal canto suo, la politica - e non è necessario riferirsi alla politica che s'arricchisce anche con la fame nel mondo - è diventata il non-luogo della decisione, perché essa avviene altrove, in quell'altro teatro - l'economia - che da due secoli ha ridotto la politica ad un palcoscenico, dove ha luogo la rappresentazione democratica di interessi che, di fatto, operano dietro il sipario e lontano dagli schermi.

E allora, che cosa resta della sconfinata povertà del mondo? Null'altro che la singola e isolata testimonianza di chiunque, guardando fino in fondo la propria povertà, in tutto lo squallore ed il rifiuto che sovente evoca, e accogliendola come parte di sé, cerca di darle un senso in nome di quel fascio di luce sul continente buio della nostra miseria che viene dall'Uomo-Dio. Allora, ognuno diviene memoria che tenta di sollecitare la coscienza e la sensibilità di coloro che non hanno come problema quotidiano quello di non morire di fame: fame d'amore, fame d'identità, fame di salute, fame di pane e di relazione.

La povertà infatti tende a nascondersi, perché è umiliante. Nessuno la va a cercare, perché la sua vista inquieta. C'è persino il rischio di organizzare le risposte alle "nuove povertà" (alcune delle "vecchie", p. es. la malattia mentale grave, sono spesso già confinate nei... vuoti a perdere), costruendo catene di gesti che, senza neppure guardare in faccia il destinatario, erogano i diversi tipi di assistenza, previsti per i diversi tipi di povertà... e guai a non rientrare in una delle categorie programmate: si è veramente senza-identità, persino fuori appunto dalla condizione umana. In qualche modo, riusciamo così a soccorrere la povertà (e a fornire medicine palliative allo sguardo lucido sulla nostra povertà interiore) senza incontrare mai le persone povere, se non in uno spezzone televisivo tra una forchettata e l'altra.

Ciò che non si vede non esiste, o esiste solo come sentito dire, come statistica, dove i numeri hanno il solo compito di cancellare i volti di quei poveri a cui la miseria ha già tolto, se non il pane come accade nel resto del mondo, certo quasi tutte le possibilità che la vita in Occidente concede ai suoi abitanti.

Così anche la nostra esistenza si rende immune dalla coscienza vigile della nostra propria povertà e si apre ad un narcisismo, elevato a criterio di desiderabile normalità.

Ma il rimosso ritorna. E non ritorna come "puro" senso di colpa, da cui sarebbe anche facile lavarsi con un gesto di carità, bensì come atrofizzazione della nostra esistenza che, per non percepire, non vedere, non sentire quel che inevitabilmente la tocca, deve procedere selezionando a tal punto quanto registra della vita, da diventare alla fine una esistenza impoverita. E' qui che si è aperta la possibilità di trasformare, senza più scandalo, il natale in un evento commerciale oppure in una serie di ricorrenze di cui si attende con impazienza il trascorrere, salvo forse là dove ci sono dei bambini. La povertà negata e rimossa si vendica, mutilando la nostra esperienza dell'umano e rendendo senza senso la parola "salvatore".

Negare/rimuovere la povertà esistenziale, eludendo il contatto immediato con quanti ne sono portatori, conduce e quasi costringe a costruirci un mondo diverso da quello che è e ad abitare in uno spazio falsificato, dove tutto è sfumato/svisato. Forse è anche per questo che troviamo tanta difficoltà a "dire" e a "dirci" la nostra identità, che non potrà mai emergere nella sua autenticità, se le relazioni e il mondo entro cui la collochiamo è falsificato. Il mancato allenamento a cogliere la "fame" (nelle variegate forme a cui abbiamo accennato) e a tentare almeno di guardarla in faccia ci rende alla fine incapaci di reagire alla nostra stessa fame e perfino di decifrare le radici profonde dei nostri bisogni e desideri. La degenerazione e la banalizzazione della parola "carità" indica che gran parte della società dubita che le false coscienze che si sono innestate sulla cosiddetta cultura cristiana dell'Occidente possano veramente chinarsi sulla povertà umana.

Non pensiamo che questo significhi che tutta la cultura occidentale o noi stessi siamo divenuti cattivi o insensibili. Forse la responsabilità di questi processi dipende da un venir meno di vigilanza e da un eccesso di delega. Socialmente parlando, probabilmente abbiamo permesso che le povertà del mondo divenissero smisurate, perché di fronte alla dimensione dell'enormità la nostra sensibilità si arena. Il troppo grande non riesce a toccarci: quando ci viene detto che ogni otto secondi muore un bambino nel mondo, il nostro sentimento s'imbatte, non in una tragedia ma in una statistica, davanti alla quale piomba in una sorta d'incapacità a reagire in modo coinvolgente, emozionale, in ultima analisi, umano. Il moltiplicarsi di statistiche, ormai prassi della nostra cultura, è peggiore di tutte le povertà perché rende possibile la ripetizione di queste situazioni terribili, il loro accrescersi e il loro divenire inevitabili.

Da un lato, i mutamenti epocali anche in questo ambito ci hanno fatto sperimentare una inadeguatezza e una ferita alla nostra onnipotenza, per cui abbiamo trovato più "razionale" (e forse necessario) organizzare le risposte alla povertà, e cioè delegarle a organizzazioni, enti ecc.

Queste procedure seguono la logica tecnologica: organizzazione, razionalizzazione ed una certa impersonalità.

Tali forme organizzative sono divenute in qualche modo ineliminabili e necessarie, eppure è compito del credente apportarvi quel supplemento di umanità, di speranza, di condivisione che ne può modificare la "qualità".

Ciò può avvenire proprio accogliendo la nostra insufficienza di fronte all'enormità del problema, scegliendo ed accettando di dedicarsi ad una o poche persone, e così allenandoci ad accettare coscientemente i nostri limiti creaturali, a far sì che l'incontro non sia più pretesa di soluzione onnipotente, ma evento che tocca le corde della nostra identità e che 'può far erompere più veritiera l'invocazione di salvezza rivolta a Dio.

Anche questa volta il natale lascerà la povertà del mondo così com'è. Spenti i riflettori che le feste hanno acceso sul pianeta delle povertà, persino riconosciute nelle richieste di perdono che chiese e gruppi hanno pubblicamente proclamato, ciò che rimarrà sarà l'esperienza di chi si è reso conto non tanto delle dimensioni dell'immane miseria, quanto della capacità di accettare la nostra creaturale insufficienza e di condividerla con umile ma leale solidarietà con le altre povertà che riusciremo a fissare negli occhi, come dovremmo riuscire a tener fisso lo sguardo su Gesù Cristo, autore della nostra fede.


Affrontare il male nel contesto dell’incarnazione

Le trasformazioni epocali hanno modificato anche il modo di pensare la liberazione o salvezza dal male. Oggi infatti non ci chiediamo più (o almeno non è questa la domanda più frequente) quali siano le ragioni ultime del male bensì come affrontarlo e superarlo (che è poi, proiettato in termini del regno e dell'assoluto, il processo sotteso al termine salvezza). Questo tema è fondamentale, perché saper reagire adeguatamente al male è uno dei compiti maturativi di ogni persona umana, credente o meno. Ma è anche uno "spazio" dove il cristiano può portare un suo contributo specificò.

La riflessione sul rapporto tra Incarnazione e povertà che viene offerta dalla liturgia ci presenta due dati:

* l'azione di Dio, nell'orizzonte cristiano, non perviene in modo efficace all'umanità se non trova spazi umani che ne traducano l'inesprimibile forza in parole, gesti, linguaggi che siano appunto umanamente comprensibili. Da qui deriva anche la serena consapevolezza dell'immensa ed ineliminabile distanza tra l'energia divina e la nostra possibilità di accoglierla e di tradurla in linguaggi umani, ciò che evita tentazioni di onnipotenza e ferite narcisistiche.

* La redenzione che Cristo ha operato, non ha eliminato il male dal mondo, bensì ha tracciato un modello per riuscire a vivere in modo salvifico (cioè che alimenta la vita) anche le situazioni negative. L'esperienza cristiana è profondamente consapevole che la povertà della persona umana non ha in se stessa la forza di portare il male, ma si fida senza riserve che la salvezza è già stata operata e attende di penetrare i tessuti della storia quando trova ambiti di accoglienza nel tempo. L'esempio di Gesù ci porta a comprendere che la salvezza si opera quando persone e comunità si aprono senza riserve all'azione di Dio e così riescono ad inserire energie di vita là dove invece circolano le forze di morte o predominano processi distruttivi.

Il nostro sforzo personale e comunitario si concretizza in cammini di disponibilità perché l'amore di Dio possa irrompere nelle dinamiche del disordine primordiale, come pure nelle sacche di male determinate ed amplificate dal peccato delle persone umane. La coscienza cristiana è convinta che il male non verrà sconfitto da strutture giuridiche o regole morali, ma solo da persone e comunità che amplifichino gli spazi in cui solidarietà e misericordia creeranno le condizioni perché nuove ed inedite forme di umanità possano emergere e crescere.

In questa prospettiva sappiamo dunque che la crescita autentica dell'uomo e la progressiva vittoria sul male hanno dimensioni solidali con la storia: non possono essere limitate alla dimensione personale (che però è la condizione di base per l'accoglienza dei doni salvifici), né a quelle comunitarie. Sono necessarie anche istituzioni, organizzazioni, strutture ` complesse che diventino ambiti sempre più idonei ad accogliere doni di vita e di salvezza.

Rischiare la propria vita mettendosi nelle organizzazioni o anche fare azione politica, portando appunto quel supplemento di agàpe (= amore gratuito) e di consapevolezza della legge dell'Incarnazione e dell'importante ruolo che la povertà creaturale ha avuto nella vicenda storica di Gesù di Nazareth è lo specifico apporto del cristiano per realizzare comunità umane in grado di costruire percorsi in cui l'avventura umana diviene capace di portare il male, di saperlo rendere comunque occasione di crescita di umanità autentica, fino a vincere il male e... perfino la morte!

Aprile 2018

Una “lectio divina” pasquale


Maria di Magdala e Maria di Nazareth

“Voglio cercare l'amore dell'anima mia” (Cantico dei Cantici)

tutta la gamma degli affetti umani espressi in due donne


A parte i vangeli dell'infanzia, aggiunti posteriormente solo da Matteo e da Luca, i Vangeli offrono più spazio a Maria di Magdala che alla Madre di Gesù.

Non sono le uniche, nel Vangelo troviamo molte figure femminili: i sinottici parlano addirittura di un seguito femminile.

Marco (15, 41), alla morte di Gesù sul calvario annota la presenza di alcune donne, Maria di Magdala, Maria di Giacomo il minore e di Joses, e Salome. Aggiunge che lo seguivano e servivano quando era ancora in Galilea, insieme a molte altre che erano salite con lui a Gerusalemme.

Pure Matteo (27, 55) registra la presenza delle donne sul Golgota: “ molte donne che stavano ad osservare da lontano, le quali avevano seguito Gesù dalla Galilea per servirlo”.

Sia Marco che Matteo nominano per prima Maria di Magdala.

Luca, l'evangelista più attento al ruolo delle donne, non aspetta il racconto della Passione per citarle, ma già nel cuore della vita pubblica di Gesù (8, 1-3), le presenta addirittura accanto ai dodici. Anche qui egli la nomina per prima:“...Gesù se ne andava per città e villaggi, predicando e annunciando la buona notizia del regno di Dio. C'erano con lui i Dodici e alcune donne che erano state guarite da spiriti cattivi e da infermità: Maria, chiamata Maddalena, dalla quale erano usciti sette demoni; Giovanna, moglie di Cuza, amministratore di Erode; Susanna e molte altre, che li servivano con i loro beni.”

E' evidente che questo personaggio, Maria di Magdala, ultraposseduta dal demonio (sette, per dire, secondo l'interpretazione tradizionale biblica, che li aveva tutti), fosse già abbastanza nota nel suo ambiente. E' probabile che, una volta liberata da Gesù, sia diventata un caso ancora più interessante e famoso in tutta la zona.



Sicuramente è un personaggio chiave nel Vangelo, una figura emblematica di rapporto personale con Gesù, di sequela declinata totalmente alla passione amorosa. In lei si esprime la tensione fondamentale della creatura umana verso “l'amore dell'anima mia”, il Bene assoluto, verso Colui che l'attira fin oltre il confine della morte.

Ciò appare evidente nei Vangeli della Passione.

I dodici e tutti i discepoli, tranne non a caso “quello che Gesù amava” (connotato speciale, legato al mistero di un Dio che è Amore) scompaiono dalla scena.

Si è rotto il rapporto “istituzionale” di discepolo-maestro, laddove i rispettivi ruoli sono chiari e ben definiti. Da una parte il discepolo con i suoi requisiti, tra cui il primo, secondo la cultura tradizionale ebraica, di sesso maschile in età adulta; dall'altra, il maestro con una autorità riconosciuta ufficialmente. sia pure di malanimo dai farisei, che usavano chiamarlo “maestro”). Nella Passione il Maestro perde ogni autorità agli occhi di tutti , anche dei discepoli, che fuggono sgomenti come pecore allo sbando.

Restano invece i rapporti veri e profondi: quello della Madre, delle donne che lo seguivano esclusivamente per riconoscenza /affetto/pura attrattiva. Per questo viene ad emergere la figura di Maria di Magdala fino al momento culminante dei racconti della risurrezione.



Matteo prima la nomina in testa al gruppo formato anche da Maria madre di Giacomo e Giuseppe, e dalla madre dei figli di Zebedeo (27, 55); poi cita soltanto Maria di Magdala e l'altra Maria (27,61 e 28, 1 ).

Marco, ugualmente, prima la nomina con le altre due donne (Salome al posto della madre dei figli di Zebedeo) 15, 40 e 16, 1; poi parla solo di lei: “Risuscitato al mattino nel primo giorno dopo il sabato, (Gesù) apparve prima a Maria di Magdala...questa andò ad annunziarlo … non le vollero credere.”(v. 9).

Sia Matteo che Marco (15, 47) rilevano l'atteggiamento di estremo coraggio e partecipazione delle donne, di Maria di Magdala in particolare, nel seguire tutti i momenti della passione, morte e sepoltura del Signore, fin nei minimi dettagli. I vangeli, infatti, annotano che Maria Maddalena “osservava” sia pure da lontano lo svolgersi del supplizio di Gesù (Mc 15, 40; Mt 27, 55; Lc 23, 49); che le donne stavano ad osservare dove veniva deposto (Mc 15, 47); e addirittura “come era stato deposto il corpo di Gesù (Lc 23, 55). E' uno sguardo fermo, che neppure la morte riesce a distogliere, perché unicamente rivolto all'oggetto amato.

Alla sepoltura di Gesù , rotolata la pietra all'entrata del sepolcro, Giuseppe di Arimatea se ne andò. Lì sedute di fronte alla tomba stavano Maria di Magdala e l'altra Maria (Mt 27, 61)

Nel IV vangelo Maria di Magdala appare sotto la Croce accanto alla madre di Gesù e alla sorella di questa, ma è nella risurrezione che la vediamo risaltare in primo piano.

Al cap. 20 di Giovanni, c'è solo lei, che di buon mattino, quando era ancora buio si reca al sepolcro. L'espressione “ancora buio”, (analogamente al significato della distanza da cui osservava con le altre donne il supplizio di Cristo) allude all'oscurità che è nel cuore della Maddalena, alla difficoltà di aprirsi alla luce della fede. Solo l'amore la guida. Si legge in trasparenza tutta l'angoscia della donna del Cantico dei Cantici, che va in cerca dell'amato, di Colui cui anela la sua anima.

Corre a darne notizia ai discepoli. Ma anche loro, come Giuseppe di Arimatea, dopo essere stati alla tomba, se ne tornano a casa.

Lei invece stava fuori ma vicino alla tomba e piangeva. Fuori, per dire la non comprensione del mistero, ma vicino per l'amore che fa strada alla fede.

E' tutta concentrata sul suo dolore, e tuttavia non smette di cercare.

Gli angeli le chiedono perché piange. E' la coscienza che va pian piano schiarendosi.

E' l'invito a capire il suo stato d'animo, la sua pena e la ragione della sua sofferenza.

Quindi interviene Gesù che le fa la stessa domanda e aggiunge: CHI CERCHI?

A questo punto è portata a far chiarezza sulle sue più profonde ragioni: ciò che le interessa è soltanto recuperare il corpo del suo Signore morto. Soltanto quando Gesù pronuncerà il suo nome, la chiama (“non siete voi che avete scelto me, ma io ho scelto voi”), avviene la sua conversione. Lo riconosce come Maestro, come Colui che solo può indicarle la via giusta per raggiungere la verità e la vita. E' finalmente pronta per lasciarsi condurre da Lui sulle “SUE” strade che sono diverse da quelle degli uomini . Lei pensa di toccarlo e possederlo come il bene più desiderabile (cfr tentazione di Eva nel giardino di Eden), Gesù le mostra invece la via giusta per trovarlo e non perderlo più. Deve andare dai fratelli: là solo lo raggiungerà, perché con la sua morte e risurrezione li ha congiunti per sempre con sé, in un'unica identità di figli di Dio e del Padre



MARIA di NAZARETH

Al confronto della Maddalena, i Vangeli sembrano dare poco spazio alla Madre di Gesù. La incontriamo all'inizio, nei vangeli dell'infanzia. Poi, nella vita pubblica di Gesù, appare soltanto poche volte, con il semplice appellativo di madre (Mc 3, 31-35; Mt 12, 46ss; Lc 8, 19; Gv 2 e 19, 25). Solo due volte la si chiama per nome, in occasione della visita di Gesù a Nazareth (Mt 13, 55 “sua madre non si chiama Maria?” e Mc 6, 3 “non è costui il carpentiere, il figlio di Maria?”

Maria di Magdala e Maria di Nazareth sono due donne completamente diverse non soltanto per temperamento, audace e passionale l'una, delicata e discreta l'altra; ma anche per storia personale. La loro vicenda parte da due punti completamente opposti: da una situazione di malattia e di oscurità la prima, da uno stato di grazia la seconda. Eppure giungeranno ad incontrarsi sotto la Croce, in un unico destino di dolore e di grazia.

Entrambe esprimono in maniera esemplare il cammino di ricerca di ogni persona umana.

Non a caso donne, rappresentano simbolicamente il tipo di rapporto che Dio intende creare con la sua creatura l'umanità intera: un rapporto sponsale, di amore reciproco e totale.

Anche Maria, la madre di Gesù, ha dovuto percorrere un lungo itinerario per conoscere veramente Gesù e diventare madre in senso pieno. Vediamo come.

Maria non è menzionata nel seguito femminile di Gesù, composto perlopiù da donne.

guarite da spiriti cattivi e infermità o appartenenti ad un certo rango (Giovanna, moglie di Cuza amministratore di Erode) o facoltose che assistevano Gesù e i discepoli con i loro beni. La condizione di queste donne permetteva loro in qualche modo una maggiore libertà per seguire un maestro e, inoltre, così singolare e controcorrente come Gesù.

Maria, invece, la madre appare sempre in compagnia dei parenti, specificatamente “con i fratelli di Gesù“ secondo la più tradizionale delle prassi vigenti nel mondo culturale ebraico.

Non possiamo non rilevare la diversità di atteggiamento di Gesù nei riguardi del primo gruppo rispetto al secondo.

Marco al cap. 3 vv. 31-35, scrive: “Giunsero sua madre e i suoi fratelli e, stando fuori, mandarono a chiamarlo. Attorno a lui era seduta una folla, e gli dissero: "Ecco, tua madre, i tuoi fratelli e le tue sorelle stanno fuori e ti cercano". Ma egli rispose loro: "Chi è mia madre e chi sono i miei fratelli?". Girando lo sguardo su quelli che erano seduti attorno a lui, disse: "Ecco mia madre e i miei fratelli! Perché chi fa la volontà di Dio, costui per me è fratello, sorella e madre".

Anche Matteo (12, 46 ss) osserva: “Mentre egli parlava ancora alla folla, ecco, sua madre e i suoi fratelli stavano fuori e cercavano di parlargli. Qualcuno gli disse: "Ecco, tua madre e i tuoi fratelli stanno fuori e cercano di parlarti".Ed egli, rispondendo a chi gli parlava, disse: "Chi è mia madre e chi sono i miei fratelli?".Poi, tendendo la mano verso i suoi discepoli, disse: "Ecco mia madre e i miei fratelli!Perché chiunque fa la volontà del Padre mio che è nei cieli, egli è per me fratello, sorella e madre".

In Lc 8, 19 si legge: “E andarono da lui la madre e i suoi fratelli, ma non potevano avvicinarlo a causa della folla. Gli fecero sapere: "Tua madre e i tuoi fratelli stanno fuori e desiderano vederti". Ma egli rispose loro: "Mia madre e miei fratelli sono questi: coloro che ascoltano la parola di Dio e la mettono in pratica".

Gesù tiene a distinguere nettamente i due gruppi: quelli che si considerano dentro stanno fuori e non riescono a incontrare Gesù; quelli di fuori, Gesù li raccoglie intorno a sé come una famiglia.

Maria è colei che non si è mai staccata dalle sue radici, è rimasta solidale con la sua famiglia e il suo ambiente culturale religioso, assumendone la tragedia del rifiuto.

Bene dunque rappresenta il popolo d'Israele, il popolo dell'alleanza, cui appartiene, come dice Paolo nella lettera ai Romani, la legge, le promesse ecc., ma non si adagiò su una posizione di privilegio; piuttosto si lasciò guidare dalla Parola fattasi carne nel suo stesso grembo. Rinunciò al privilegio “carnale”, ai diritti che poteva reclamare il suo ruolo unico e singolare di madre, per porsi come discepola alla stregua di tutti coloro che avrebbero seguito non senza fatica l'insegnamento nuovo inaudito di Gesù . E' davvero l'anello che congiunge l'antico Israele al nuovo, senza alcuna discontinuità.

Vediamo il cammino di Maria

I Vangeli registrano soltanto tre incontri tra madre e Figlio. Nei primi due è la Madre a parlare per prima.

In Lc 2, 48 Maria si rivolge a Gesù dodicenne, ritrovato dopo tre giorni di angosciosa ricerca a Gerusalemme nel tempio in mezzo ai dottori, chiamandolo “FIGLIO”.

In Gv 2 alle nozze di Cana, gli si rivolge senza alcun appellativo.

Nel terzo episodio (Gv 19, 25-27), sotto la Croce la madre tace. Parla soltanto Gesù.

Non c'è un seguito, come nel caso della Maddalena. Per il Vangelo è qui, sul Calvario, dove la fede di Maria diventa perfetta, ed ella diventa veramente madre, nel senso che la sua maternità si estende a tutto il corpo di Cristo rappresentato in quel momento dal discepolo amato, con cui Cristo non può che identificarsi secondo la dinamica propria dell'amore per cui “colui che ama si trasforma nell'amato”.

Ripercorriamo i tre momenti:

Sia nel primo che nel secondo caso la risposta di Gesù è sconcertante: non è una risposta affettuosa da figlio. E tuttavia il comportamento che segue, appare del tutto contraddittorio. In entrambi i casi si assoggetta alla madre, riconoscendone il “diritto”. Le sue parole però la spingono ad andare oltre, a penetrare più a fondo il suo mistero di Redentore del mondo.

Nel primo episodio (Lc 2, 41ss) Luca annota che Maria con Giuseppe non comprese le parole del Figlio, e tuttavia “custodiva tutte queste cose nel suo cuore”, riconoscendo in tal modo al Figlio l'autorità del Maestro.

Nell'episodio delle nozze di Cana (Gv 2, 1ss) dimostra già una maggiore consapevolezza del significato del suo ruolo nei confronti di Cristo. Non lo chiama “Figlio”, non si appella più alla sua posizione di madre, ma esprime la sua fede senza condizioni nel Dio dell'alleanza, il Dio fedele, che colma le attese del suo popolo che ascolta e fa quanto Egli dice. E' questa fede che Maria professa e può trasmettere efficacemente ai servi dicendo: “Qualsiasi cosa vi dica, fatela!” (cfr Es 19, 8).

La posizione di Maria rispecchia esattamente la posizione di Israele, il popolo scelto da Dio, a cui Dio ha voluto rivelarsi perché attraverso di lui la salvezza potesse raggiungere tutti i popoli della terra. Ma il privilegio è in ordine ad un impegno maggiore, a crescere nella conoscenza che sorpassa ogni conoscenza...(cfr Ef 3, 19)

La venuta di Gesù viene a scuotere le sicurezze inevitabilmente acquisite da Israele, come da qualsiasi credente in ogni tempo e luogo. Il suo messaggio, il suo modo di essere, richiede a tutti , dentro e fuori, un grande sforzo di comprensione, che coincide con una vera e propria conversione.

La madre che si muoveva alla ricerca di Gesù sempre in compagnia dei fratelli di Gesù, secondo i sinottici, la troviamo poi da sola, sotto la Croce, (solo un'altra parente donna e la Maddalena) poiché i fratelli “erano rimasti fuori” (“… neppure i suoi fratelli credevano in lui “ Gv 7, 5).

La fede della Madre ricongiunge vicini e lontani.

Negli Atti degli Apostoli (1, 12), dopo l'ascensione al cielo di Gesù, tutta la comunità dei credenti (gli Undici apostoli con alcune donne) si ritrova unita con Maria (questa volta la si chiama per nome), la madre di Gesù e con i fratelli di lui.

Monastero Serve di Maria – Arco (TN)

Pasqua 2018

Ogni anno, all’inizio della primavera, siamo chiamati a celebrare il mistero pasquale, cioè Dio che irrompe nella storia del cosmo e di ciascuna persona.

Contempliamo questo passaggio da tre angolature:

l’amore incondizionato di Dio che si fa pane e vino, carne e sangue (giovedì);

la passione che sulla croce diventa il punto di incontro tra Dio e l’umanità (venerdì);

il silenzio e l’oscurità del sepolcro in cui Dio si nasconde (sabato),

per esplodere nella luce e nella gioia della risurrezione, in cui tutto si rinnova (domenica).

Celebrare il mistero pasquale significa anche per noi ripercorrere un analogo passaggio:

uscire dalla distrazione,

andare oltre la superficialità,

superare ciò che è abitudinario,

scoprire e raggiungere la pienezza della vita.

Per aiutarci, tutti insieme, vi offriamo l’orario delle nostre celebrazioni.

Mercoledì delle Ceneri 2018

14 marzo 2018

Mercoledì delle Ceneri


Inizia il tempo di QUARESIMA


Signore,

grazie che ancora ci doni la possibilità

per ravvederci e salvarci:

almeno in questo tempo

si faccia più intensa la preghiera:

tacciano le passioni,

si convertano i cuori,

si aprano le menti alla tua Parola

che di giorno in giorno

ci accompagna nel grande cammino

verso la tua e nostra pasqua.

Tu che vivi e regni nel tempo e oltre il tempo.

Amen.

Natale 2017

AI tuo parto indolore,

Giuseppe s'è fatto schivo

e discosto in orazione,

lasciando tra voi

il massimo spazio

a un nugolo di angeli

(immenso e quieto

pulviscolo dorato);

e anche a te,

o Madre,

non è rimasto altro

in quella luce –

che adorare, in silenzio

umile e pace...

Prima riposto quieto

- avvolto in bianche fasce -

nella mangiatoia calda

poi, a terra, nudo sul soffice lembo

della tua lunga e colorata veste

o sulle ginocchia trepide,

tu lo adoravi, stupita,

Maria:

testimone prima, con Giuseppe

di un sogno atteso da secoli

e così tenero e indifeso

ormai.

Bella la tua regale

umiltà, o Santa,

che accoglie e protegge

l’Altissimo fattosi Bimbo.

Tu taci, invitando con sorriso

a farci silenzio anche noi,

come già Giuseppe e gli angeli,

che non cantano più

(per tanti che siano)

se non sottovoce,

per non disturbare

il Silenzio plenario

della Parola.

(fr. DavideM. Montagna osm)

Via Mantova 11 - 38062 ARCO (TN) 

email: info@monasteroarco.eu